Mi è capitata tra le mani una guida di Veronelli del 2002. Un po' curioso e un po' sarcastico, mi sono messo a sfogliarla, consapevole delle distanze che mi separano dallo stesso io che la sfogliava 14 anni fa. Mi sono immerso nelle descrizioni di vini del '95, del '97, del 2000 e mi sono rivisto, ancora al corso da sommelier, al mio primo Vinitaly con la guida sottomano e un quaderno su cui avevo preso appunti. Ricordo l'elenco come fosse ieri. Pieno di Toscana. Pieno di Piemonte. Pieno di vini a base merlot e cabernet. Pieno di “barrique” e “barricati” e vini “impenetrabili al colore”.
Tra una pagina e l'altra mi sono tornate in mente due degustazioni e mezza fatte di recente. Un approfondimento di vini che al William del 2002 sarebbero piaciuti da matti e un incontro su vini molto più leggiadri e bevibili che fanno invece impazzire il William del 2016.
E la mezza? La mezza la racconto dopo.
Andiamo con ordine.
L'invito perentorio parte da Facebook. E ci si ritrova a bottiglie coperte a guardare i bicchieri che si riempiono e di colori e di profumi e di sapori. Ovunque ritorni di ribes e more e vegetali di varia origine. A volte leggere e a volte importanti note vanigliate e tostate.
Il gioco era capire se ci sia un senso ad aggiungere cabernet e merlot ai vitigni autoctoni o se fosse semplicemente un “miglioramento” dettato da alcuni mercati meno propensi al gusto più rustico. Dalla teoria alla pratica i vini molto perfetti e dal vago sentore di “costruito per piacere” alla lunga stancano. Lo stesso vino (di cui non farò il nome) che anni fa mi avrebbe fatto versare lacrime di gioia al solo pensiero di possederlo (in tutti i sensi) oggi mi lascia quel sapore di troppo che stroppia. La goccia che fa traboccare il vaso. Il pezzetto in più che diventa forzatura. Non che non mi piaccia. Stufa. Ed è diverso.
L'altro incontro (con le stesse modalità) vede i bicchieri riempirsi di spume e colori cangianti e profumi che variano dal mosto al pepe nero, alla frutta fresca, alle olive in salamoia, alla terracotta.
Facciamo che il gusto si modifica. Facciamo che la pastina della nonna che a 5 anni era la cosa più buona sulla faccia della terra, adesso mi dà di infanzia o di ospedale. Facciamo che il sushi oggi strapiace e domani verrà sostituito da altre cose. Più o meno caloriche. Più o meno grasse. Più o meno soddisfacenti.all'occhio, è la varietà di trasparenze che si raggiungono nelle sfumature di rosso e aranciato. La cosa che resta a bicchieri rigorosamente vuoti è la sensazione di volerne ancora. Di bocca asciutta e pronta e desiderosa di un nuovo assaggio. Da ripetere per più volte.
C'era un periodo in cui a casa dei miei e di tutte le zie era consuetudine trovare l'insalata russa e i gamberetti in salsa rosa. Sempre. Non c'era natale o pasqua o pasquetta o onomastico o compleanno o domenica che mancassero a tavola queste due cose. Fino alla nausea. Allora mi sembrava strano un pranzo senza (avrei ucciso per la mia porzione di salsa rosa) oggi lo troverei comico.
La mia salsa rosa oggi sono il merlot e il cabernet. Che sono ottimi e danno ottimi vini… specie se penso ad alcune regioni del mondo che su quei vitigni ci hanno costruito case, palazzi e castelli. C'è che ho conosciuto il grignolino. E il verduno pelaverga. E il pinot nero. E millemila altre cose che seguo, inseguo e perseguo in giro per il mondo. E che mi danno intime e vergognose vibrazioni positive, che il prosciutto cotto con dentro l'insalata russa ammorbata di maionese proprio non riesce a darmi…
p.s. e la mezza??? era una verticale di vitigno autoctono che non posso nominare al sapore di insalata russa… e non mi è piaciuto per niente!